Commento
Il vangelo di questa domenica porta a conclusione la lettura di Gv 6, che durante il mese d’agosto ci ha guidato nel tema dell’eucarestia. Tutto era cominciato con la moltiplicazione dei pani, ma questo miracolo poi era stato solo l’occasione per un serio approfondimento che portasse la gente a scoprire che il vero miracolo è entrare nella vita eterna: questa però si ottiene dando la propria vita, facendo della propria esistenza un dono. E un dono totale: ecco perché Gesù ha insegnato che “il pane disceso dal cielo”, ancora più che la manna durante l’Esodo, è Gesù stesso che è sceso (cioè si è incarnato) per tornare in cielo attraverso il dono del suo corpo e del suo sangue, dati come cibo e bevanda, nel senso che bisogna dare tutto per amore, non solo una parte di sé o dei semplici servizi (caritativi, religiosi, sociali…). Il discorso eucaristico di Gv 6 è dunque importante, insegna a dare tutto: ma dare tutto è faticoso! E infatti il nostro vangelo comincia proprio dicendo che la gente si lamenta, addirittura mormora (come i nemici di Gesù, che poi lo uccideranno, han fatto nei versetti precedenti).
Eppure Gesù non ha un miracolo più grande dell’eucarestia e non torna a dispensare pani moltiplicati al momento ma rilancia che solo entrando in questa dinamica di dono totale di sé si permette allo Spirito di entrare in noi e darci vita. Addirittura Gesù propone una domanda provocatoria: «e se vedeste il Figlio dell’Uomo salire dov’era prima?» Di fatto, Gesù chiede se all’eucarestia questa gente non preferisca un altro miracolo, più potente, più chiaro, più evidente: una colonna di fuoco come nell’Esodo ma come una scala per vincere la morte e presentare la salita di Gesù al cielo. Questo vorremmo vedere al posto di una briciola di pane ed un po’ di vino. E invece Gesù presenta questa possibilità solo con una domanda sospesa: perché questa rivelazione sarebbe “sfacciata”, sarebbe un’imposizione di Dio che mostra il suo potere obbligando quasi l’uomo a credere. Ma sarebbe la visione di un momento, l’ennesimo miracolo finito il quale ci si interrogherebbe ancora chiedendosi «e se fosse stato solo un sogno?»
Gesù invece propone appunto l’eucarestia: che a duemila anni ancora si sia qui a celebrare un gesto così semplice dovrebbe stupirci. Ci dovremmo stupire ancora di più di tutte le storie d’amore che quel gesto ha prodotto, insegnando a miriadi di persone a fare della loro vita un dono per gli altri, nelle vocazioni che l’annuncio cristiano ha sostenuto nei secoli (genitori, missionari, sacerdoti, animatori, assistenti sociali o sanitari, etc… etc…). Il miracolo è quello dell’amore, che sarebbe più potente delle colonne di fuoco che vanno in cielo, se solo avessimo occhi per guardarlo. La frase «la carne non giova a nulla» non significa un disprezzo del corpo quanto il rifiuto di esperienze estatiche, che toccano la carne ma sono effimere, perché legate a quel momento. Il vero miracolo sarebbe invece entrare in una vita secondo lo Spirito, che ci cambia, ci fa rinascere e vivere tutta la vita in maniera diversa, secondo appunto i doni dello Spirito che è pace e gioia.
Entrare nello Spirito significa permettere a Dio di lavorare su di noi, di abitare dentro di noi (così le immagini della vite di Gv 15 o l’insistenza che il Quarto Vangelo ha per il verbo “rimanere”). E lo Spirito è, sempre per il vangelo di Gv, il dono più alto che Gesù ci ha fatto, effuso nel momento della sua morte (Gv 19,30). Lo Spirito è dunque Spirito del Crocifisso, di colui che non ha avuto paura della morte (e della morte di croce) e ha trasformato un supplizio in un gesto d’amore. Ma credere in tutto questo è veramente un impegno e un dono grande: tutti se ne vanno, Gesù sembra restare da solo con i Dodici, e anche tra loro già si presenta la possibilità di un traditore (Gv 6,64). Davvero questo discorso è duro da ascoltare!
Pietro però prende la parola, parla per tutto il gruppo, dimostra di aver compreso benissimo tutto il discorso che sintetizza in maniera magistrale come “parole di vita eterna”. Qui l’evangelista sta re-interpretando Mc 8, il vangelo in cui invece Pietro viene rimproverato per aver parlato contro la logica della croce dicendo a Gesù che un tale supplizio non gli sarebbe mai dovuto accadere: Gesù aveva risposto apostrofandolo come un “Satana”. Il Quarto Vangelo in questo modo ci dice la dignità di Pietro e ce lo presenta come un modello, come colui ci prova a mettersi nel cammino di fede (anche se forse non ha davvero compreso tutto: l’uso dell’espressione “abbiamo creduto”, tempo greco perfetto, è un po’ troppo forte, anche in vista del suo futuro tradimento). Ad ogni modo, il brano ci sembra assai utile anche per i nostri tempi moderni: in un’epoca in cui nessuno crede e tutti rifiutano il “racconto” cristiano di una salvezza operata attraverso gesti semplici come un po’ di pane spezzato e un po’ di vino versato, il Quarto Vangelo ci invita a credere in maniera personale, affidandoci solo alla parola di Gesù, non per un abbandono fideistico ma perché fonte di Spirito, di vitalità, di una capacità d’amare nella quale riconosciamo un pizzico di vita eterna.