Lev 13,1-2.45-46
Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti, suoi figli. Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento».
1 Cor 10,31-11,1
Fratelli, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza. Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo.
Mc 1,40-45
In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato.
E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro».
Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.
Commento
Le letture di questa domenica presentano una tematica molto grande e complessa come quella della purità. I concetti di puro-impuro non appartengono più alla nostra cultura, e la nostra comprensione di queste categorie è spesso troppo morale per poter essere corretta. Molto sbrigativamente, potremmo dire che per la mentalità biblico-veterotestamentaria le cose del mondo non sono tutte uguali. Ci sono cose più sacre di altre. E il sacro, per l’uomo biblico, è anche spaventoso: non lo si può toccare. Per comprendere la logica delle leggi di purità bisogna tener presente che questa concezione è più simile alla mentalità antropologicamente universale dei tabù che non al rigore giuridico del diritto, che legifera e sanziona.
Per esempio, la vita è sacra e ci sono cose che hanno un rapporto particolare con la vita: queste cose non bisogna toccarle, e se lo si fa se ne resta segnati, si diventa “impuri” e per questo motivo bisogna osservare delle pratiche per ritornare alla normalità e alla vita di tutti i giorni. La vita era rappresentata per eccellenza dal sangue, e dunque questo non doveva mai essere toccato (né tanto meno ingurgitato1). Per questo soltanto il sacerdote “gestisce” il sangue nei riti di sacrificio.
Dopo le mestruazioni, le donne erano impure perché avevano toccato il sangue: evidentemente non vi era nessuna condanna morale in questo. Ma dovevano ugualmente osservare delle pratiche per tornare pure. Molte altre cose rendevano impuri. Evidentemente la morte tocca la questione della vita: dunque non si potevano toccare i cadaveri, perché rendevano impuri. A questi tabù bisogna aggiungere anche le malattie che rinviavano certamente alla questione della vita e della morte! Lev 13, di cui la liturgia ci presenta solo alcuni versetti, è un testo molto lungo nel quale si presenta tutta una casistica: si danno istruzioni ai sacerdoti per capire quando si è davanti veramente ad un caso di lebbra; bisogna imparare a distinguere le macchie bianche dalle pustole, dai tumori di bruciatura, dalle scottature, eccetera… Questa brevissima introduzione vuole evitare di ridurre la legge dell’antico testamento ad una condanna senza appello del lebbroso: in verità questa malattia veniva verificata attentamente e l’allontanamento del soggetto era fatta in fondo per preservare la vita. Troppo facile è il giudizio da parte di noi moderni contro gli autori di questi testi che non conoscevano la medicina scientifica e che non possedevano tutte le risorse che oggi fortunatamente abbiamo.
Tutto questo discorso ci interessa perché ci permette di comprendere come Gesù abbia speso tutta la sua vita per renderci puri, cioè per evitarci quello stato fisico-religioso-sociale che ci allontanava da Dio e dagli altri. Nel Vangelo di Marco sono numerosissime le guarigioni e gli esorcismi. La prima guarigione era stata presentata al v. 23 e parlava di uno spirito immondo/impuro (ἐν πνεύματι ἀκαθάρτῳ). Poi era stato il turno di una malattia, la febbre della suocera di Pietro, ed ora per la terza volta, ci viene presentato un malato, questa volta di lebbra. Il verbo utilizzato nella traduzione italiana, guarire, non rende la sfumatura di purificazione sottesa invece nel testo:
Se vuoi, puoi guarirmi (καθαρίσαι)…Lo voglio, che tu sia risanato (καθαρίσθητι)… egli fu guarito (ἐκαθαρίσθη)… offri per la tua purificazione (περὶ τοῦ καθαρισμοῦ).
In questo modo Gesù si presenta come uno strumento nelle mani di Dio, perché a lui rinvia affinché intervenga (si noti l’uso del passivo teologico per indicare un’azione di Dio). Rispetto alle guarigioni precedenti, possiamo notare il tema della volontà di guarire che viene sollevato dal lebbroso e al quale Gesù risponde affermativamente. Qui dunque compare il tema della fede, che non avevamo incontrato nella prima guarigione (lo spirito immondo non era certo un modello di fede) e che nel caso della suocera di Pietro era solo alluso.
Sottolineiamo qui il tema della fede nella potenza di Gesù e nella sua volontà salvifica perché questa è la chiave di volta per comprendere la posta in gioco presente in questo testo. Dietro un’apparente semplicità, il testo ci sta presentando l’inizio di una lotta tra Gesù e il male che lo porterà fino alla morte. Al v. 43 infatti riscontriamo un verbo molto strano: si dice infatti che Gesù lo rimandò ammonendolo severamente. Il termine greco è decisamente forte: ἐμβριμησάμενος, participio aoristo utilizzato per qualificare l’azione di Gesù, viene infatti dalla radice ‘βρίμη’, che significa forza, ira. Si pone dunque il problema: con chi Gesù si è adirato? Con il povero lebbroso che ha appena dimostrato una fede lodevole, tanto da ricevere la guarigione desiderata? Il testo è ancora più complesso se pensiamo che al v. 41 alcuni manoscritti (Bezae) invece del participio mosso a compassione utilizzano il verbo adirarsi (ὀργίζω, al participio ὀργισθείς). Tecnicamente, dovremmo ritenere questa una lectio difficilior e dunque dovremmo preferirla al più chiaro verbo avere compassione. È infatti più facile spiegare il cambiamento del testo come un tentativo di renderlo più comprensibile con un Gesù compassionevole! In verità, i critici rispondono che si può ritenere il participio ὀργισθείς come inserito successivamente per attrazione del ἐμβριμησάμενος successivo. Ma a questo punto, bisogna spiegare perché presentare questi due atteggiamenti contrapposti di Gesù che passa dalla misericordia alla rabbia.
Non vogliamo annoiare oltre il nostro lettore con questioni di critica testuale: ci limitiamo a fare una proposta.
In Gv 11,33.38, Gesù si adira prima di compiere il miracolo della resurrezione di Lazzaro (ἐνεβριμήσατο τῷ πνεύματι, v. 33: la difficile espressione normalmente viene tradotta con si commosse profondamente). Anche in quel caso, il fatto che egli si adiri con i Giudei presenti non fa senso, dato che si trovano insieme a piangere per la morte di un amico. La spiegazione migliore è che Gesù si adiri con la morte, con l’ultima grande nemica da sconfiggere nel suo scontro finale sulla croce. Scontro che sarà inevitabile dopo un miracolo come quello di far resuscitare un morto, miracolo grandioso, fin troppo palese perché pubblicamente dimostrabile da Lazzaro stesso. Osiamo dunque avanzare questa ipotesi, paragonando l’ira del Gesù giovanneo (che segna la fine della sua predicazione pubblica nel Quarto Vangelo) con questo testo che indica invece l’inizio della sua predicazione. Gesù si adira perché intravede in questo miracolo l’inizio di quella attività pubblica che lo porterà inevitabilmente a scontrarsi con il rifiuto di alcuni e dunque con la condanna a morte. Non a caso la condanna a morte da parte dei suoi oppositori in Marco appare molto presto, già in Mc 3,6: E i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire. Al versetto precedente (Mc 3,5) notiamo che Gesù allo stesso tempo si adira (μετ᾽ ὀργῆς) e si rattrista per la durezza di cuori degli uomini che assistono a questa guarigione dell’uomo dalla mano inaridita compiuta volutamente in giorno di sabato, nella sinagoga. Qui in Mc 1 Gesù si è mostrato perfettamente religioso: comanda infatti di compiere tutto quanto prescritto dal libro del Levitico per attestare la guarigione, dimostrando anche una grande umiltà, perché non fa propaganda del suo potere taumaturgico. Certo, ha violato la legge toccando una cosa impura com’era un lebbroso: il profeta Eliseo (2 Re 5,1-14) aveva compiuto lo stesso miracolo con Naaman il Siro ma aveva evitato di toccarlo. Eppure Gesù ha questo atteggiamento libero nei confronti della legge proprio per realizzarla nella sua pienezza: supera le leggi di purità per preservare ciò che è più sacro, cioè la vita! È la stessa logica che troviamo nel superamento della legge del sabato, anche se molti non lo capiscono.
Gesù dunque insegna ad andare oltre i tabù e le leggi di purità ma lo fa non per presunzione ma per vivere ancora più in pienezza la vita, recuperando in questo modo il vero senso delle leggi custodite nel libro del Levitico.
Su questa linea potremmo leggere anche la seconda lettura. Paolo infatti sta affrontando il tema molto concreto di come comportarsi di fronte alle carni offerte agli idoli. Da un lato bisogna sentirsi molto liberi proprio perché la vera fede in Gesù Cristo insegna a relativizzare tutte queste forme secondarie del religioso; dall’altra parte non bisogna dare scandalo ai fratelli “deboli”, bisogna imparare a mettersi nei panni degli altri per comprendere come reagirebbero di fronte al nostro comportamento. Nei versetti precedenti alla nostra lettura si dice infatti: 28Ma se qualcuno vi dicesse: «E’ carne immolata in sacrificio», astenetevi dal mangiarne, per riguardo a colui che vi ha avvertito e per motivo di coscienza; 29della coscienza, dico, non tua, ma dell’altro”.
Imparare ad andare oltre le leggi di purità non dovrebbe insomma portarci a banalizzare ogni devozione, ma è invece l’invito a interiorizzare questi precetti fino a farli diventare vere espressioni di fede. Si tratta di non ridurre più la purità ad un lista di piccoli precetti quanto di saper testimoniare la sacralità della vita difendendola, rispettandola (a partire da quella degli altri), facendola crescere.
1 “…perché la vita di ogni essere vivente è il suo sangue, in quanto sua vita; perciò ho ordinato agli Israeliti: Non mangerete sangue”, Lev 17,14.