2 Re 5,14-15
In quei giorni, Naamàn [il comandante dell’esercito del re di Aram] scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Elisèo, uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato [dalla sua lebbra]. Tornò con tutto il seguito da [Elisèo,] l’uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo». Quello disse: «Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò». L’altro insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò. Allora Naamàn disse: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore».
2 Tm 2,8-13
Figlio mio, ricòrdati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore. Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna. Questa parola è degna di fede: Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso.
Lc 17,11-19
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
Commento
Prendiamo in considerazione alcune similitudini esistenti tra il brano del Vangelo di domenica e quello della prima lettura. Infatti Lc riprende alcune caratteristiche proprio di quell’episodio biblico, che certamente conosce perché lo cita precedentemente in Lc 4,27: “C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro ”. Gesù, come Eliseo, non interviene con un gesto magico, ma semplicemente rinvia questi malati dai sacerdoti. Il miracolo si compie in maniera nascosta, in sordina; non viene di fatto neppure descritto. Il problema radicale infatti non è il miracolo fisico quanto la svolta nella dinamica credente dei personaggi, sia nella prima lettura che nel Vangelo. Entrambi i testi infatti si soffermano sulla fede dei due malati, Naaman come anche il samaritano. Già il fatto che si tratti di due stranieri, dice bene la prospettiva universalista di Lc: la salvezza non è una categoria che si limita ad un popolo o ad una razza precisi. Anzi, i dieci lebbrosi del Vangelo son persone che conoscono la Torah: come prescrive infatti il libro del Levitico, si tengo a distanza nel momento in cui formulano la loro richiesta a Gesù (Lv 13,46) e inoltre son persone ubbidienti, perché hanno eseguito quanto comandato dal Signore, se hanno ottenuto il miracolo domandato. Il problema è che il cristiano non è solo un servo che sa ubbidire: la fede è un gesto che va al di là del semplice comando, è atto sincero della propria libertà che gratuitamente ha ricevuto e gratuitamente si riconsegna a Dio. Questa gratuità è quanto ricorda anche il profeta Eliseo rifiutando categoricamente ogni ricompensa da parte di Naaman. Il profeta non fa che rinviare a Dio: evita di legare a sé il malato al punto di non riceverlo neanche. Anche Gesù in fondo non lega tali persone a sé, le lascia andare, le lascia libere. Ma quale libertà veramente matura non “si sente in dovere” (benché non obbligata) a render grazie per la salvezza ricevuta? Questa è esattamente la dinamica della fede, cioè della libertà aperta al ringraziamento, perché si sa anticipata dall’iniziativa di Dio. In questo senso, troviamo qui il tema del rapporto fede-legge: la legge è fondamentale ma non basta avere un elenco di precetti, deve entrare nel cuore, deve essere riconosciuta come compimento della nostra libertà. In questo senso, la fede compie la legge perché iniziativa sempre libera, che va al di là del semplice eseguire qualcosa. Come sempre il paragone migliore è quello dell’amore: occorrono le regole (fedeltà, rispetto, affetto reciproco..) ma l’amore non è dato dal semplice ubbidire a queste condizioni. Non si dà vero amore senza queste norme ma l’amore non proviene da esse: il primato va al soggetto amante e da questo desiderio d’amore poi scaturiscono anche le regole da seguire.
I 10 lebbrosi sono tutti guariti: sono stati ubbidienti, e Dio è generoso, offre a tutti il miracolo. Ma solo uno entra in una vera dinamica di fede: questo è il miracolo che Dio non può realizzare, perché non violenta la libertà dell’uomo che resta decisione libera del singolo. Il passivo teologico ἐκαθαρίσθησαν (furono risanati) dice esattamente che l’azione di Dio è nascosta, silenziosa; il rischio di tutto questo è che tale azione passi senza una risposta da parte dell’uomo. L’unica cosa richiesta (più che da Dio, dalla logica delle cose) è che si corrisponda al dono ricevuto anche solo con il grazie: è quanto compie questo samaritano di cui si dice che a gran voce rendeva grazie a Dio (δοξάζων τὸν θεόν). Espressione questa che viene ripresa da Gesù (dare gloria a Dio / δοῦναι δόξαν τῷ θεῷ): è questa l’azione che Gesù, senza pretesa, desidererebbe giustamente anche dagli altri nove.
Gesù, con le sue domande retoriche, ci fa capire che solo un 10% ha ringraziato e che questa piccola parte non era neanche un membro del popolo eletto d’Israele. Evidentemente ce n’è abbastanza per essere messi in guardia dalla propria presunzione di credere e di essere a posto con il Signore. In fondo, il rischio di dire «ho obbedito, son andato dai sacerdoti, questi hanno riconosciuto (come dovevano fare) la guarigione, sono libero» è più che naturale. Siamo servi inutili, diceva il Vangelo di domenica scorsa (e subito precedente a questo brano), ma non stupidi. Il cristiano non può nascondersi dietro un falso «non lo sapevo, non ci è stato detto di tornare a ringraziare»: la fede si configura proprio come gioiosa scoperta della realtà trasformata (vedendo che era stato risanato /ἰδὼν ὅτι ἰάθη, v.15) e come libero ritorno a questo Dio Padre che opera cose meravigliose. Centrale dunque è questa azione di tornare (tornò indietro / ὑπέστρεψεν, v.15), ripetuta anche da Gesù al v.18 (chi tornasse indietro / ὑποστρέψαντες) che, come nel caso del Figlio Prodigo (Lc 15), configura la fede come quel coraggio di uscire dal proprio orgoglio di autosufficienza per ri-consegnarsi nell’abbraccio di un Padre che da sempre ama i suoi figli.
Questo brano si configura allora come una spiegazione di quella frase misteriosa che era “siete servi inutili”. La logica delle fede è al di là dei criteri di utilità, di guadagno, di “do ut des”: è una relazione di amore per Dio, amore che è ricompensa a se stesso. A volte chiede un durissimo lavoro e non se ne capisce il perché (come diceva la piccola parabola del servo che dopo aver lavorato, deve continuare a lavorare per il suo padrone) e a volte invece un lavoro semplice e minimo (andare dai sacerdoti come prescritto dalla legge o andare nel fiume a bagnarsi come chiesto dal profeta) viene ricompensato fino all’eccesso. La fede, come l’amore, non è un rapporto di lavoro, non si può quantificare nell’immediato, si valuta invece sulla tenacia del voler credere che, al di là della fatica, piccola o grande, c’è un grande affetto di fondo che non muore mai. In questo senso, il nostro servizio è al di là dell’utile, perché alla base ci deve essere solo l’amore e la continua riconoscenza. Per questo lavoriamo sempre a sostegno di questa relazione, sia che ci guadagniamo poco o che ci guadagniamo molto: siamo ‘servi’, cioè legati a Dio, e questo è sufficiente a farci felici, di modo che il nostro legame resticomunque, al di là dell’utilità o dell’inutilità del nostro fare.
Nella seconda lettura questo impegno di ‘corrispondere’ alla grazia di Dio trova un perfetto esempio nella predicazione paolina. Benché sia difficile dire la paternità esatta delle lettere pastorali1 possiamo collocare questo testo sullo sfondo di altri brani certamente paolini di cui la nostra lettera si presenta come un approfondimento. Nei versetti subito precedenti infatti Paolo ci parla della missione del cristiano come il portare a compimento un lavoro, e usa le tre immagini del soldato, dell’atleta e del contadino. La stessa cosa viene detta, oltre che in 2 Tim 2, anche in 1 Cor 9:
7 E chi mai presta servizio militare a proprie spese? Chi pianta una vigna senza mangiarne il frutto? O chi fa pascolare un gregge senza cibarsi del latte del gregge?…24 Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! 25 Però ogni atleta è temperante in tutto… 26 Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato…
In questi casi Paolo ha dunque un problema diverso rispetto alla prima lettura e al Vangelo: se questi ultimi invitano ad accorgersi dell’azione di Dio per corrispondere almeno con un gesto minimo di gratitudine, Paolo invece deve sostenere chi questa vita in rendimento di grazia già la sta vivendo da tempo magari e però non ne vede più i frutti, anzi, ne percepisce solo le conseguenze negative. Per questo, Paolo ricorda l’importanza di saper sempre rinnovare con passione quella conversione iniziale alla quale non si può affidare tutto il cammino di fede. Verranno momenti in cui la fede prenderà la forma soprattutto della fatica, dello sforzo, della rinuncia (come è naturale in tutte le professioni): occorrerà dunque rinnovare questa passione con la propria perseveranza (parola centrale del brano, presente due volte nel nostro testo, anche se il verbo ὑπομένω è tradotto una volta con io sopporto e un’altra con io persevero). L’autore vuole dunque presentarsi come modello ma soprattutto mostrare come l’azione di Dio non si configura soltanto come una grazia iniziale e basta, ma come un sostegno libero, fedele e sicuro, che mai verrà meno. In questo modo il cristianesimo insegna a riconoscere quella grazia che è presente in ogni situazione, perfino difficile, e a trovare dunque anche in quel contesto (con tutte le difficoltà del caso) il coraggio di credere per ritornare a Dio e ringraziarlo. Bisogna temere solo il nostro voluto rifiuto (se lo rinneghiamo, anch’egli ci rinnegherà / εἰ ἀρνησόμεθα, κἀκεῖνος ἀρνήσεται ἡμᾶς, v.12): quello anche Dio non potrà evitarlo. Ma la nostra semplice mancanza di fede (εἰ ἀπιστοῦμεν‘) sarà superata dalla sua fedeltà, che non sa rinnegarsi: già questo non dovrebbe essere stimolo di gratitudine?
1Scritti del ‘Pastore’, fantomatico autore di questi testi? Raccolta di scritti privati di Paolo stesso pubblicati poi da qualcun’altro? Ecc…