Questo vangelo si innesta in una serie di altre tre parabole collocate qui dall’evangelista Matteo per porre al centro la questione dell’autorità di Gesù e del rifiuto di chi si oppone a questo suo potere. Le tre parabole sono rispettivamente:
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quelle dei due figli ai quali viene chiesto di andare nella vigna (uno dice di no, ma pentitosi poi ci va; chi risponde subito di sì poi però non vi si reca)
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il brano dei vignaioli malvagi di questa domenica
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il racconto di domenica prossima, l’invito alla festa del re al quale diversi dichiarano di non poter partecipare.
All’inizio di questa serie di parabole troviamo dunque la domanda sul ‘potere’ di Gesù: (Mt 21,23) «In virtù di quale potestà fai tu queste cose? Chi ti ha dato questo potere?». Gli interlocutori sono i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo e questo è significativo perché dice il rifiuto che quelli che, teoricamente, dovevano essere i più vicini a Dio e invece si oppongono al Figlio (al contrario di altre categorie che invece si convertono e credono). Queste persone erano per esempio i pubblicani e le prostitute di cui si parlava nel vangelo di domenica scorsa nella famosa frase “i pubblicani e le prostitute vi precedono nel regno dei cieli”. Sottolineiamo questo aspetto perché le tre parabole hanno come elemento unificante (che permette di accostarle) il fatto che nuove persone vengono raccolte in sostituzione di chi rifiuta. Sarà così anche nel vangelo di domenica prossima per l’invito al banchetto del re ed è così anche nel brano di questa domenica, dove centrale risulta dunque la citazione del Sal 117,22 (“la pietra che i costruttori hanno rigettato, questa è divenuta pietra angolare”).
Si tratta dunque della sostituzione del popolo ebraico con l’annuncio ai gentili? Bisognerebbe evitare di fare del Regno dei Cieli un posto solo per qualcuno o solo per qualche ‘razza’! Se in questo brano si mettono in guardia i capi del popolo d’Israele, lo si fa non per un discorso razziale ma per la vicenda storica che li faceva primo popolo chiamato a entrare nel Regno. Non a caso, nel v.43 (l’ultimo del brano liturgico di domenica) si dice che “sarà tolto a voi il Regno” come se già in qualche modo ne avessero il possesso! In questo senso, a Israele si ricorda sempre l’importanza della propria elezione, dell’essere stato un popolo al quale YHWH aveva parlato in maniera speciale (Sal 147,19-20: Annunzia la sua parola a Giacobbe, I suoi decreti e I suoi giudizi a Israele. 20 Non ha fatto questo con nessun’ altra nazione, non ha fatto conoscere a loro I suoi giudizi). Ma la convinzione che l’ingresso nel Regno fosse un fatto dovuto, automatico, dettato proprio dalla razza era il rischio contro il quale Gesù e il cristianesimo sempre combattono. Con questa parabola infatti Gesù fa pronunciare direttamente ai suoi avversari la sentenza della loro stessa condanna. Chiedendo loro cosa dovrebbe fare il padrone della vigna, loro stessi applicheranno la regola del restituire il male commesso (v.41: “κακοὺς κακῶς ἀπολέσει αὐτούς” / i malevoli malevolmente farà perire”). Si renderanno conto solo dopo di essere loro stessi quei vignaioli malvagi! Fino alla fine, si erano immedesimati con i padroni della vigna! Ma la loro stessa sentenza li porta a riconoscere che i veri vignaioli non sono definibili per la loro razza ma per le loro azioni, per i frutti che sapranno restituire al padrone (“altri vignaioli, che gli daranno i frutti al momento opportuno”, v.41b; si collega così l’inizio e la fine della pericope, visto che il punto di svolta della parabola era iniziato proprio al sopraggiungere del momento del raccolto (v.34).
In conclusione, non si può rubare l’eredità ed è assurdo pensare di potersene impossessare uccidendo il figlio legittimo! Il regno dei Cieli resta un dono, che sarà dato (il verbo al v.43 è un passivo teologico) ad un popolo che non sarà definito per la sua razza ma per il suo operare e cioè per il suo fare frutti. Non si parla di ‘popoli’ al plurale, come a indicare la semplice sostituzione degli ebrei con tutti i pagani, i gentili e non si parla neanche di ‘chiesa’.
Siamo dunque tutti messi in guardia: il Regno dei Cieli non è una garanzia, un qualcosa che appartiene di diritto “a qualcuno sì e a qualcuno no”, ma è un dono che si riceve se però allo stesso tempo si corrisponde con serietà all’invito a prendere in mano la vigna che, già preparata e custodita, ci viene amorevolmente affidata.
Il tema della vigna infatti è un tema che il Vangelo non inventa e che non viene preso a caso, come la liturgia di domenica bene ci mostra proponendo come prima lettura Is 5. Il cantico della vigna dice bene l’importanza di quest’ultima per la società di allora. Chi si sposa, faceva una sua nuova casa e piantava una nuova vigna, per accogliere l’amata e per la futura prole. Piantare una vigna è la prima azione che compiono sia Dio (nel secondo racconto di creazione) sia Noè (una volta sceso dall’arca dopo il diluvio). La vigna è un lavoro che richiede grandi cure (dà frutti solo dopo 3 anni e chiede di essere sempre seguita), ma che è finalizzata a creare un ambiente vivibile, per se stessi e per la propria famiglia.
Alla vigna si lega dunque il tema degli affetti più stretti e capiamo bene allora come il tradimento di questo rapporto così intimo sia particolarmente doloroso. Dio ci invita a far famiglia con lui, a entrare nella sua vigna; ma l’uomo saprà abbracciare questa offerta d’amore, imparando però a sua volta a prendersi carico dell’impegno che questo dono comporta?
Questa è la sfida che questa domenica la liturgia ci ripropone.