PASQUA 2024 – Un Dio di libertà
Dice Isaia che il Signore lo ha scelto e ha infuso su di lui il suo Spirito per mandarlo a portare il “lieto annuncio” (nel testo greco troviamo il verbo εὐαγγελίζω, da cui la parola vangelo); a questa parola il Cristianesimo si è rifatto per sintetizzare tutto il messaggio di Gesù. Ma in che cosa consiste questo messaggio? Is 61 lo spiega abbastanza chiaramente: si tratta di liberare i prigionieri e questa categoria è molto ampia. Il testo greco vi vede, al v.1, i ciechi (ecco perché nel vangelo di Gv 9 si parla del cieco nato) ma al di là dei tecnicismi linguistici l’idea del testo è abbastanza chiara dato che si parla di poveri, di afflitti, di incarcerati, di cuori spezzati. Certamente, nell’esperienza dell’esilio e della distruzione di Gerusalemme, il popolo ebraico ha visto la massima sofferenza e poter tornare da questa devastazione è stato per loro scoprire Dio come il grande liberatore che domina la storia, che governa su tutti i regni del mondo, che, perfino da perfetto sconosciuto, muove Ciro, re dei Persiani, fino al punto di fargli proclamare il ritorno degli ebrei nella loro terra. In questa vicenda così “impossibile” gli autori del testo biblico hanno visto la potenza di Dio che può liberare gli uomini da ogni loro condizione di sofferenza. Sicuramente ci saranno stati testi e vicende antiche a proposito di liberazioni operate da Dio in precedenza, ma tutto a partire dall’esperienza dell’esilio fu certamente rivisitato alla luce del Dio che libera perfino dall’esilio. In questo senso, Abramo diventa un esiliato che torna da Ur dei Caldei (Babilonia), Giacobbe anche lui deve fuggire dal fratello Esaù e rientra nella sua terra dopo anni di servizio prestati allo zio Labano che l’ha ingannato nel dargli Lia al posto di Rachele. Alla stessa maniera, Mosè è un esiliato in terra di Madian che torna anziano in Egitto per far uscire il suo popolo dalla schiavitù del Faraone. E l’elenco potrebbe essere ancora più lungo. Facciamo solo due esempi, prendendo l’inizio del testo biblico e la sua conclusione. Gen 1,2 per esempio richiama il ritorno dell’esilio quando parla della “terra vuota e informe”: l’espressione tòhu wabòhu infatti è una citazione di Is 24,10 dove si parla della città del tòhu, la città del caos, che sarebbe Gerusalemme distrutta. In questo senso, tutto il racconto di creazione sarebbe una lode a Dio che ricrea la vita anche da un vuoto e da una distruzione totale come quella operata da Babilonia1. Per il secondo esempio, proponiamo di prendere in considerazione la conclusione della Bibbia ebraica, che termina con il libro di Cronache. Questo è un dato che non tutte le nostre bibbie riportano. La Bibbia ebraica è composta infatti di tre parti, di cui l’ultima si chiama Ketûbîm (gli Scritti). Pur di collocare 2Cro come chiusura del loro testo biblico, gli ebrei hanno perfino fatto una forzatura cronologica, anticipando Esdra e Neemia che narrano fatti successivi. Ma in questo modo, il testo ebraico si chiude con l’invito a tornare, a salire a Gerusalemme. Questo dunque l’ultimo versetto: «Così dice Ciro, re di Persia: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”» (2Cro 36,23). Salire è un altro dei vocaboli con i quali Dio mostra chi è, ossia il liberatore, colui che ha fatto salire il popolo degli ebrei dall’Egitto. Così infatti iniziano i due Decaloghi di Es 20 e Dt 5: «Io sono il Dio che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa di schiavitù» (Dt 5,6). Per quanto l’esperienza esilica sia importante, non è stata la causa dell’invenzione di Dio! Al contrario, se gli ebrei non si sono dispersi (come tutti gli altri popoli) a causa delle deportazioni prima assire e poi babilonesi è perché dovevano avere un elemento religioso già solido, che ha permesso di riconsiderare le vicende vissute in maniera nuova. Il ritorno dall’esilio e la ricostruzione del Tempio sono stati eventi importanti che hanno portato a riconsiderare tutte le antiche tradizioni in vista di questo Dio che libera tutti da ogni condizione, perfino la peggiore! Ma questa operazione è stata possibile perché già prima c’erano racconti di liberazione che erano fondamentali, ai quali infatti gli autori del testo biblico si sono rifatti. La scrittura del Pentateuco (o originariamente di un Tetrateuco, di un Esateuco o di un Ennateuco) e del resto della Bibbia ha voluto mettere al centro la liberazione perché era già la categoria posta in radice nella fede ebraica. La Pasqua ebraica è fatta di due feste, antiche, che hanno messo insieme nel racconto di Es 12 (la festa di una notte, con il tema dell’agnello pasquale e quello del nuovo lievito, festa di una settimana). Es 14 (altro testo che sentiremo nella veglia pasquale) è l’unione di due racconti di liberazione: uno operato in maniera repentina, con Mosè che stende il bastone, apre il mare in due fronti d’acqua e fa passare il suo popolo. L’altra versione è invece un racconto più lento: la colonna di fuoco tutta notte si frappone tra Israele e gli Egiziani, il vento soffia e provoca una bassa marea, il popolo di Dio passa all’asciutto e invece i carri del Faraone che inseguono si impantanano per la marea che sale rapidamente (dettaglio che sarebbe inutile nella prima versione, perché tra due fronti d’acqua che precipitano addosso ai nemici non servirebbe parlare della velocità delle ruote dei carri!). In pratica, gli ebrei avevano già vari racconti di liberazione, di un Dio che aveva fatto Pasqua, aveva creato dei passaggi dalla morte alla vita in più ambiti. E di questo Dio che li aveva da sempre liberati e continuava a farlo hanno voluto scrivere in quello che dopo l’esilio è diventato un canone, un testo definitivo.
Tra le leggi più antiche che il testo biblico custodisce troviamo certamente quella sugli schiavi. Noi non siamo abituati a leggere questi elenchi di leggi ma il vantaggio delle leggi è che sono precise: ogni epoca ha le sue caratteristiche e quindi le legislazioni vanno aggiornandosi per adattarsi alla nuova situazione. La legge sugli schiavi torna in tre punti del Pentateuco: in Es 21, Dt 15, Lv 25 (e aggiungeremo Ger 34). La più antica è certamente la legge presente in Es 21,2ss perché in questa fase ci sono ancora dei santuari dove andare a fare il rito per rendere per sempre lo schiavo un servo del padrone. Questo situazione è comprensibile solo in epoca antica, cioè prima della riforma di Giosia, ovvero prima del 640 a.C.! Un dato certamente antico, che risalirà ad una fase ancora precedente. In estrema sintesi, cosa proponeva questa legge? La legge diceva che un ebreo, solo per il fatto di essere ebreo, indipendentemente da chi fosse il padrone, al settimo anno era libero. Magari un uomo si era dovuto vendere per debiti: ma questa schiavitù, per gli ebrei, durava solo sei anni: al settimo, l’uomo era libero. Per forza! Contro anche la sua stessa volontà! L’assolutezza di questa legge ci deve stupire: Dio è un Dio che libera, gli ebrei sono un popolo di figli, liberati dalle loro schiavitù, e quindi automaticamente al settimo anno l’ebreo poteva uscire, andarsene. O meglio, doveva! Ma in una società come quella, dopo sei anni di servizio per un altro uomo, probabilmente non era facile andarsene: infatti, la legge spiega come poter restare in casa di quel padrone! Anche perché nel frattempo il servo magari aveva preso in moglie una serva di quella casa e aveva avuto dei figli da lei. Andandosene, avrebbe dovuto lasciare tutto questo al padrone, perché sue proprietà. Il rito, sia in Es che in Dt, si concentra sul come poter restare per sempre nella casa del proprio padrone: bisognava fare un rito di foratura dell’orecchio, verosimilmente si metteva un orecchino in modo da identificare il servo di un certo casato. Quello che però qui vogliamo ribadire è l’antichità di questa legge e la sua forza: credere in Dio comportava una liberazione automatica, al settimo anno, ed essa era così forte che avveniva comunque, motivo per cui bisogna intervenire con un rito apposito per poter restare schiavi. L’assolutezza di tale regola ci stupisce: Dio doveva essere sentito come un vero liberatore, qualcuno che aveva cambiato l’identità del suo popolo, fino al punto che ogni maschio di Israele non poteva più essere schiavo per sempre. La legge poi in Dt cambia, con la centralizzazione del Tempio non si può più andare fino a Gerusalemme per uno schiavo che deve fare il rito della foratura dell’orecchio e allora la legge si trasforma diventando una funzione casalinga. Ma la più grande novità è che questa liberazione viene estesa anche alle donne («se un tuo fratello o una tua sorella ebrea…»). In Dt troviamo una bellissima teologia del popolo che deve sapere di essere stato eletto, scelto da Dio (Dt 7) e quindi ogni membro del popolo deve godere di quell’antica liberazione che già veniva promessa nella versione precedente della legge e che ora vediamo estesa. In questa sede non affrontiamo la questione di Lv 25: basta far notare che Lv estende ancora di più questa liberazione perché di fatto elimina la schiavitù tra gli ebrei.
A chiusura e conferma di quanto l’idea di un Dio di libertà fosse fondamentale per l’AT possiamo addurre due altre indicazioni. La prima è che questa legge di Es 21 deve essere vista come la prima legge data da Mosè. Per molti, infatti, il Decalogo non può essere visto come il testo più antico e anzi oggi si ritiene che Es 20 sia stato inserito successivamente nella redazione del Pentateuco. Questo comporta che, togliendo il capitolo suddetto, i versetti sulla liberazione della schiavo si troverebbero in prima posizione nell’elenco delle leggi e dei precetti dati da Mosè. La seconda indicazione la prendiamo da Ger 34. In questo capitolo si vuole spiegare il motivo definitivo che avrebbe spinto Dio a permettere la distruzione di Gerusalemme, ovvero la violazione del patto sulla liberazione degli schiavi. Dice infatti Geremia:
«8Questa parola fu rivolta a Geremia dal Signore, dopo che il re Sedecia aveva concluso un patto con tutto il popolo che si trovava a Gerusalemme, per proclamare la libertà degli schiavi 9e per rimandare liberi ognuno il suo schiavo ebreo e la sua schiava ebrea, così da non tenere più in schiavitù un fratello giudeo. 10Tutti i capi e tutto il popolo, che avevano aderito al patto, acconsentirono a rimandare liberi ognuno il proprio schiavo e la propria schiava, così da non costringerli più alla schiavitù: acconsentirono dunque e li rimandarono effettivamente; 11ma dopo mutarono parere» (Ger 34,8,11a).
Il re e i notabili di Gerusalemme avrebbero dovuto proclamare la liberazione degli schiavi e invece si sono rimangiati la parola: questa sarebbe stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso portando Dio ad abbandonare la città di Sion al suo destino. Dio ricorda la regola precedente sulla schiavitù (Ger 34,18) dicendo che non era stata seguita, che Gerusalemme sembrava essersi ravveduta con questo patto di liberazione per gli schiavi ma poi, rimangiandosi la parola, si era condannata ad una punizione esemplare, ovvero la caduta della città, la distruzione del Tempio e la deportazione del popolo e del re Sedecia.
La liberazione di Gesù Cristo
Anche Gesù Cristo porta libertà: la liberazione non è politica, egli non vuole organizzare una rivolta come gli zeloti pretenderebbero ma non per questo liberazione da lui attuata è meno visibile. La Pasqua di liberazione che Gesù realizza ci libera dal nostro egoismo e conferisce un potere al nostro amore, dilatandolo a dismisura, insegnandoci a dare tutto. In queste poche righe, ci concentriamo sulla figura di alcune donne. La scena più chiara è riportata in Mc 14: è l’inizio della passione di Mc che si è ascoltata la domenica delle Palme. Tutto inizia con una donna che spreca 300 denari (la paga di un anno) per amore di Gesù. E questo gesto viene da lui apprezzato e riconosciuto: «ha fatto un’opera bella… quello che aveva (da fare), l’ha fatto». La donna è stata libera di amare completamente Gesù, dando tutto il contenuto del vasetto. Chi è prigioniero sono i discepoli che insorgono contro un tale gesto chiedendo conto dello spreco compiuto. Il Vangelo di Gv, che riporta lo stesso episodio in Gv 12, pone in bocca a Giuda questa richiesta, specificando però che egli era un ladro e voleva la cassa. Invece, Gesù riconosce l’importanza di questo gesto e dice addirittura che «ovunque sarà annunciato il vangelo, si dirà quanto è stato compiuto da questa donna in memoria di lei» (Mc 14,9). Gli esegeti metto in parallelo questo brano con Mc 12,41-44: qui si lodava una donna che metteva due spiccioli nel tesoro del Tempio. Questa che sembra essere una scena minore è invece di grande importanza, proprio per il suo parallelismo con la donna che unge Gesù in anticipo. I due personaggi sono diversi, in Mc 12 abbiamo una vedova povera mentre questa donna che spreca un tale valore per Gesù era certamente di un’altra condizione sociale. Ma entrambe sono lodate per il loro coraggio a dare tutto. Di entrambe si dice il valore del sacrificio e da qui capiamo che non conta la dimensione economica, l’importante è la libertà di dare senza limiti. La vedova dona tutto, affidandosi completamente a Dio per la propria sopravvivenza, come farà Gesù donandosi sulla croce. L’altra donna dona tutti i soldi guadagnati in mesi e mesi di lavoro, senza paura della critica maschilista che subito si leva. Entrambe dunque anticipano il gesto finale di Gesù che dà la sua vita per noi, dimostrandoci che la logica dell’amore, per quanto difficile e impegnativa, non è impossibile. Qualcuno ha intuito l’amore di Gesù e ha imparato a corrispondergli. Questa libertà ci è donata, se noi la voglia accettare. Certo, possiamo invece restare dalla parte di chi obietta che questo spreco sembra troppo. Ma questa è una logica di schiavitù, si resta legati ai condizionamenti esterni mentre il senso della Pasqua è appunto una liberazione totale, una libertà in vista di un amore che non ha più chi lo trattenga e proprio per questo è libero di donarsi senza misura. E cosa è la felicità se non questo stato di apertura e dono che non può essere limitato?
Una buona Pasqua di liberazione a tutti
1L’altro elemento che da sempre con certezza rinvia Genesi a Isaia è l’uso del verbo creare, ברא, che è certamente del Deutero-Isaia.