Tutti conosciamo il testo di Mt 25 che tutti gli anni chiude il nostro anno liturgico con la festa di Cristo Re. Vorremmo oggi concentrarci invece sul fatto che la liturgia ci presenti questo vangelo in connessione con una lettura come quella di Ez 34. In questo brano infatti l’immagine non è tanto quella del re quanto quella del pastore. Ma in verità il loro abbinamento non è per nulla secondario! Anzi, è assolutamente voluto perché mostra che il vero re sarà colui che si prende cura del popolo come un pastore fa con il suo gregge. L’immagine del ‘re’ viene quindi privata di ogni connotazione militare e politica, di ogni ‘potere’, perché alla fine ciò che conta è solo la cura. Il potere infatti ha un grande rischio, quello di rendersi assoluto, di pensarsi non come servizio ma come strumento per la realizzazione di fini unicamente personali. Per comprendere il brano di Ez 34, rispetto alla liturgia domenicale bisogna leggere anche il versetto subito precedente perché mostra che Dio interviene contro i falsi pastori, quelli che «pascevano se stessi». Questo ritornello è il leit-motiv che ha aperto l’intero capitolo e che dice bene come il potere regale fosse stato depravato.
La critica alla monarchia è un tema trasversale che troviamo in tanti passi biblici. Per esempio, Ezechiele in questo brano riprende quanto detto in precedenza dal profeta Geremia:« “Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo”. Oracolo del Signore. Perciò dice il Signore, Dio di Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: “Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io mi occuperò di voi e della malvagità delle vostre azioni. Oracolo del Signore. Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho lasciate scacciare e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno. Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; di esse non ne mancherà neppure una”. Oracolo del Signore. “Ecco, verranno giorni – dice il Signore – nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra”», (Ger 23,1-5).
Ci interessa questo brano perché ci dice che Dio non elimina il potere: senza una gestione, un controllo o un’autorità non vi sarebbe altro tra gli uomini che lotta e violenza. Ma questo potere dovrebbe essere libero da ogni pretesa egoistica, speso solo al servizio e alla cura delle pecore. Un tale re è un dono di Dio ma richiede anche tutto l’impegno e tutte le virtù del singolo per diventare questo pastore saggio e intelligente, dedito alla giustizia e al diritto.
L’immagine delle pecore purtroppo nella nostra tradizione ha preso uno spazio spropositato (in una visione scorretta ma diffusa, la pastorale è diventata una formazione per i soli pastori, mentre ai laici è rimasto lo spazio di meri esecutori degli ordini impartiti). In questo senso si rischia una banalizzazione dell’idea del popolo di Dio, che dovrebbe invece costituire una comunità intelligente di fedeli, dediti al servizio a Dio, da intendersi non solo liturgicamente ma anche come impegno concreto per gli altri. L’idea del gregge non è nata per appiattire il popolo di Dio solo ad una massa informe di laici chiamati unicamente ad ubbidire (si pensi anche solo al vangelo dei talenti di domenica scorsa che obbliga invece ogni servo a sentirsi padrone e gestore dei beni che il Signore gli ha affidato). Con la metafora delle pecore si voleva sottolineare il ruolo del re, che non può limitarsi a fare l’amministratore, a raccogliere tasse e a gestire burocraticamente il regno (come rimprovera Dio stesso). Perché, come un gregge, il popolo è un ente vivo, che necessita di cure continue, perché rischia di disperdersi.
Questa nostra introduzione speriamo ci faccia cogliere correttamente il nostro brano. Dio sta prendendo l’iniziativa contro questi falsi re, falsi pastori: hanno pensato di curare solo se stessi. Per due volte Dio si presenta e si offre in prima persona per dire la sua disponibilità ad intervenire: «Ecco, io stesso…». L’azione successiva è il prendersi cura di questo gregge liberato dai suoi oppressori, tanto più detestabili perché in verità dovevano essere i primi salvatori del popolo. La cura si esprime nell’inseguimento che il giusto giudice deve compiere contro i malfattori. «Chiederò loro conto del mio gregge… io stesso cercherò le mie pecore» sono due modi di tradurre la stessa frase. Il verbo דרשׂ/darash indica l’inseguire il malfattore, il ladro. Viene ripetuto sia al v.10 che al v.11: l’ebraico è infatti molto ripetitivo perché fa parte del gusto poetico di allora ripetere più volte le stesse espressioni. In italiano invece si cerca di tradurle in modo diverso. Nel primo caso, darash ha come oggetto il gregge ma è seguito dalla parola “dalla loro (dei pastori malvagi) mano”: in questo caso ha dunque un senso positivo, “inseguire il proprio gregge” significa ‘chiedere conto’ della gestione del gregge. Al versetto successivo si ripete identica questa espressione: è un modo per dire che certamente Dio compirà questo intervento. L’italiano traduce che “Dio cercherà il suo gregge”, ma è l’esatta ricerca di prima compiuta per ‘chiedere conto’ ai pastori. Dopo l’essersi presentato e aver avviato questa ricerca/inchiesta, l’altra azione fondamentale è l’intervento liberatorio di Dio, lo ‘strappare’ il gregge dal pericolo. Lo stesso verbo ebraico è infatti alla base dell’espressione “strapperò loro di bocca” e “li radunerò (strapperò) da tutti i luoghi…”: l’idea è quella dell’Esodo, di un Dio che libera, perché strappa i sofferenti dai loro contesti di morte e oppressione per porci in pascoli erbosi e luoghi ameni.
Nei testi originali, nel v.12 si ripete per due volte la parola ‘giorno’, che dunque andrebbe inserita anche nel nostro testo. L’espressione “il giorno di oscurità e caligine” rimanda alla distruzione di Gerusalemme. Il fatto che questa parola compaia anche prima, nell’azione del pastore che in quel giorno è “in mezzo al suo gregge” fa pensare che Dio non è assente nel momento in cui vi è la tormenta. Ma anzi, come un pastore quando c’è il temporale passa in rassegna tutta la mandria per vedere se qualche pecora spaventata è scappata, così fa Dio, che non vuole che nessuno si perda del suo gregge. La traduzione italiana, eliminando la ripetizione che sembra inutile, rischia di non far capire la situazione drammatica in cui si trova il pastore, che è tanto più eroico perché non è come un mercenario, pagato per stare lì con un gregge che non gli appartiene, ma è invece il pastore che si espone anche alla pioggia, alle intemperie e ai fulmini pur di salvare tutte le pecore. Ritroviamo questa interpretazione in Gv 10!
In questa maniera, Dio sta dicendo di non aver trascurato nessuna pecora! Neanche nella distruzione di Gerusalemme Lui era assente, ma anzi cercava di tenere insieme il gregge perfino in quelle situazioni. E la sua ricerca non è cessata neanche in terra d’esilio: ha continuato a radunare le sue pecore e presto le porterà a pascoli dove farle riposare.
Tutta questa passione e dedizione di Dio per gli uomini (piano verticale), non può poi non avere una conseguenza anche nelle relazioni tra le persone. Le pecore infatti non sono solo vittime dell’azione esterna; anzi, chi è ferito, può inacidirsi e proprio per questo essere più pronto di altri a colpire e ferire, non curandosi se chi ha di fronte sia una pecora debole o più sofferente di lui. In questo senso, Ezechiele sta proprio pensando a situazioni concrete in cui gli ebrei in diaspora non sempre devono essere stati compatti e concordi come l’immagine tradizionale del popolo disperso in esilio può far pensare.
La giustizia del Re-pastore deve dunque diventare azione da adempiere anche all’interno del gregge, e non solo fuori (come se il male fosse solo esterno a noi).
Poiché voi avete spinto con il fianco e con le spalle e cozzato con le corna le più deboli fino a cacciarle e disperderle, io salverò le mie pecore e non saranno più oggetto di preda: farò giustizia fra pecora e pecora. Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore; io, il Signore, sarò il loro Dio e Davide mio servo sarà principe in mezzo a loro: io, il Signore, ho parlato (Ez 34,21-24)
In questo senso, possiamo leggere Mt 25 non soltanto come un brano di giudizio. Dio non giudica gli uomini perché si diverte nel far soffrire gli uomini; può giudicare gli uomini perché si è abbassato al livello dell’ultimo, del povero, perfino del carcerato perché proprio come il pastore di Ez 34, nei momenti di sofferenza e di turbamento, lui cercava, pur in mezzo alla tempesta, di tenere insieme il gregge. È un pastore che conosce la paura delle pecore, il loro terrore e la tentazione di fuggire. Essendo stato il primo salvatore, può chiedere ai suoi discepoli di fare altrettanto e anzi verifica se il suo amore è diventato in essi un atteggiamento fisso e stabile che devono saper offrire agli altri al di là dell’elogio che possono riceverne. Infatti neanche gli operatori di giustizia si rendono conto che Gesù era presente in quella persona che loro stavano servendo e loro stessi, come gli altri, chiedono «Ma quando ti abbiamo visto così Signore?» In questo, il cristianesimo è ben altro che formare un popolo di pecore obbedienti, perché chiede invece a ciascuno una piena coscientizzazione dell’amore gratuitamente ricevuto da Gesù. Amore che, gratuitamente, non può che essere ritrasmesso per essere autentico.