In questa liturgia delle Palme proponiamo il commento alle prime due letture che illuminano la liturgia contenuta nel lungo vangelo di questa domenica
Is 50,4-7
Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo,
perché io sappia indirizzare
una parola allo sfiduciato.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio
perché io ascolti come i discepoli.
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,
le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia
agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso.
Il brano della prima lettura fa parte di una serie di quattro testi chiamati comunemente “canti del Servo”: Is 42,1-4; 49,1-6; 50,4-9; 52,13–53,12.
Tutti li conosciamo per i testi che, da sempre, son stati letti nella tradizione cristiana come le prefigurazioni veterotestamentarie dell’uomo della croce. Anche il brano di questa nostra liturgia domenicale infatti parla del dorso offerto ai flagellatori, di sputi, di insulti, della barba strappata.
Ancora più chiaro però è l’ultimo Canto, il quarto:
Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. 3 Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. 4 Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato.
(Is 53,2-4).
Eppure, questa rilettura cristologica, non dovrebbe essere troppo affrettata. Identificare immediatamente la missione di Gesù con un destino di croce e sofferenza potrebbe sviluppare interpretazioni doloristiche che poco hanno a che vedere con il Dio della vita. Il quarto canto del servo di Isaia è tale perché conclude un percorso che verte sull’essere servo e non sul fatto di essere disprezzati. Non basta essere oggetto di sofferenze per essere un Messia. Gesù soffre perché non vuole tradire il suo Dio, che lui ha scelto come suo padrone, come suo Signore, di cui si è fatto servo. Gesù, poi, potenzierà questa immagine parlando del rapporto con Dio in maniera ancora più stretta, usando l’immagine Padre-Figlio.
Ma centrale nel messaggio biblico è concepire la propria vita come la realizzazione di un servizio per Dio. Era questa l’ottica già di tutto il libro dell’Esodo, sintetizzabile nella bella formula “Dalla schiavitù al servizio”. Il Faraone imponeva un servizio che era in verità un lavoro infinito, una vera schiavitù; Dio, sconfiggendo il Faraone, diventava il vero Re, che invece dell’oppressione proponeva al suo popolo un’alleanza. Ma questa non esimeva dal ‘lavoro’ (perché l’esistenza senza lavoro non era pensabile nel mondo biblico; il lavoro era, ed è, un compito naturale, giusto e santo dato da Dio all’uomo). Il fedele, il credente dunque viene liberato da Dio ma non resta schiavo della sua libertà: come tutti i veri operai, cerca un vigna dove lavorare! Gesù ha perfettamente in testa questo modello quando racconta la parabola del padrone della vigna.
Quello che per noi moderni è dunque inconcepibile, il ‘metterci al servizio’ di qualcuno (perché ci ricorda un diventare ‘schiavi’), è invece una condizione innata dell’uomo che da solo non può vivere e che deve semplicemente scegliere chi vuole seguire, se Dio oppure degli idoli. Ma l’idea biblica è che l’uomo è un soffio, non può trovare consistenza in sé ma solo al di fuori. Il rischio dell’uomo è però cercare consistenza, solidità in cose che invece lo inganneranno.
L’unica soluzione è dunque quella di mettersi al servizio di Dio. Essere ‘servi di Dio’ è in verità l’unica via, per l’uomo, per essere libero. Perché solo Dio sarà un padrone buono, che non ci ridurrà in schiavitù ma che svilupperà tutte le nostre capacità fino a farci diventare veramente liberi, padroni, in Lui e grazia a Lui, di una terra per formare, insieme a tanti fratelli, un popolo libero e padrone del suo destino.
Quest’ottica del servo che positivamente si sceglie un padrone a noi può sembrare paradossale ma è invece presente nella prima lettura della nostra liturgia. Il testo dice infatti che il “Signore ci ha aperto l’orecchio”. Non si tratta qui soltanto del “fare attenti i nostri orecchi” come ha già detto sempre nel nostro brano. Si fa invece riferimento al gesto che si faceva per accogliere in definitiva in casa un servo che aveva scelto di restare, per sempre, con il suo padrone.
12 Se un tuo fratello ebreo o una ebrea si vende a te, ti servirà per sei anni, ma il settimo lo manderai via da te libero. 13 Quando lo lascerai andare via libero, non lo rimanderai a mani vuote; 14 gli farai doni dal tuo gregge, dalla tua aia e dal tuo torchio; gli darai ciò con cui il Signore tuo Dio ti avrà benedetto; 15 ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese di Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha riscattato; perciò io ti dò oggi questo comando. 16 Ma se egli ti dice: Non voglio andarmene da te, perché ama te e la tua casa e sta bene presso di te, 17 allora prenderai una lesina, gli forerai l’ orecchio contro la porta ed egli ti sarà schiavo per sempre. Lo stesso farai per la tua schiava (Dt 15,12-17).
Questo brano di Dt spiega come funzionava la schiavitù per gli ebrei all’interno del codice deuteronomico. La schiavitù era spesso una necessità, perché, come si dice sempre in questo testo (Dt 15,11) e come riprende anche il Vangelo di Gv, “i poveri non mancheranno mai nel paese, li avrete sempre con voi”. Ma la legge ebraica imponeva che ogni settimo anni fosse data la possibilità allo schiavo ebreo di riscattarsi. E proprio per ricordare che la religione ebraica era una religione incentrata sulla libertà e sulla liberazione dall’Egitto, si imponeva al padrone anche il dovere di dare una ‘buona uscita’ perché lo schiavo potesse affrancarsi senza ricadere subito sotto un altro padrone.
Ma c’era anche il caso che lo schiavo, durante questi sette anni, avesse sperimentato la grazia di stare con il padrone. A volte, durante quel servizio, aveva sposato una serva e avuto dei figli e dunque preferiva vivere lì piuttosto che essere libero di andarsene altrove ma senza nulla. E il rito del forare l’orecchio era dunque un gesto per donarsi completamente a un padrone amato.
In questa immagine, troviamo condensata la teologia del Servo di YHWH che è un uomo, un credente, felice di stare con Dio completamente! Il Servo ha colto Dio come un buon padrone, gli consegna la sua vita perché sa che non ci sarà maniera migliore di vivere la propria libertà!
Il primo canto del Servo inizia proprio con espressioni che ricordano l’elezione, la grazia ricevuta da parte del servo di poter entrare al servizio di Dio:
Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni. (Isa 42:1 ICE)
Tutta l’esperienza del Servo (e anche di Gesù) è incominciata con questa storia di elezione, con la scoperta che Dio l’aveva scelto come servo eletto, di cui Dio stesso si compiaceva e in cui Dio stesso aveva posto il suo spirito. Il legame con Dio era dunque indistruttibile!
Per questo il Servo, quando la missione richiestagli da Dio diventa faticosa, sa soffrire: non per un’ubbidienza masochistica ma perché ha consegnato la sua libertà a Dio, sa che su altre strade non sarebbe più se stesso e non sarebbe più felice!
Non gli resta che ‘indurire il volto’ come dice ancora la nostra lettura di Is 50: “rendo la mia faccia dura come pietra”. Gesto, questo, che ricorda esattamente lo stile con cui Gesù aveva scelto di vivere la sua ultima Pasqua sulla terra (“αὐτὸς τὸ πρόσωπον ἐστήρισεν τοῦ πορεύεσθαι εἰς Ἰερουσαλήμ”: [Gesù] indurì il volto per andare verso Gerusalemme, Lc 9,51).
Per questo motivo, un brano come questo del servo di Isaia, non poteva che essere la migliore preparazione per la festa delle Palme e l’introduzione alla settimana santa.
Fil 2,6-11
Cristo Gesù,
pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.
Il brano di Fil 2 è particolarmente famoso: la sua forma breve e concisa eppure così densa ha sempre fatto pensare ad un antico inno liturgico ripreso dall’apostolo Paolo e qui inserito nella lettera. In realtà, chi studia quei passi nota come il testo sia ben inserito nel corpo della lettera e oggi si ipotizza che il testo appartenga di più al genere dell’elogio che non ad una qualche liturgia di cui comunque non ci sono giunte attestazioni. Sta di fatto che Gesù è presentato come il modello da seguire. Fil 2,5 (il versetto che introduce il nostro brano) dice che dovremmo interiorizzare lo stesso modo di pensare che fu in Cristo: pensiero esplicitato nella sua condotta espressa in questi versetti in cui vediamo che dalla condizione di Dio egli passa alla condizione di servo. Parallelamente, si dice che era come Dio e che diventò uomo e lo diventò veramente, tanto da accogliere anche la dimensione mortale. Infatti è morto e addirittura ha scelto una morte ignominiosa come quella di croce. Il testo non voleva spiegare come è possibile unire le due nature, umana e divina o quale di queste contasse di più. Si voleva invece invitare ad essere obbedienti come lo è stato Cristo. A conclusione del nostro brano, infatti, in Fil 2,12 si dice: «Quindi, miei cari, voi che siete stati sempre obbedienti, non solo quando ero presente ma molto più ora che sono lontano, dedicatevi alla vostra salvezza con rispetto e timore». E il modello dell’obbedienza è Gesù, che ha fatto la sua kenosi, il suo abbassamento, per obbedienza («facendosi obbediente fino alla morte»). Questo tema è anticipato da quello dell’umiliarsi, che è un atteggiamento di Gesù che si abbassa fino alla morte ma che era anticipato anche in Fil 2,3: «Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso». In pratica, Gesù è assolutamente esemplare ma è un modello che può essere seguito. Se lui ha saputo trovare la sua libertà nel farsi servo, possiamo farlo anche noi. Paolo stesso ha vissuto così il suo servizio: tutta la lettera ai Filippesi era cominciata definendo lui e Timoteo servi/schiavi di Cristo (Fil 1,1).
Il nostro brano però non si esaurisce in un elogio dell’umiliazione. Il testo si divide infatti in due parti: nella prima c’è Gesù come soggetto e nella seconda vediamo invece Dio all’azione. Gesù ha deciso di non trarre profitto dalla sua condizione originaria e ha saputo invece attraversare i cieli, farsi uomo e addirittura servo di questa umanità per quale muore in croce; ma Dio, come è nella tradizione biblica, esalta chi si umilia («chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato», Mt 23,12). Paolo, parlando di ogni lingua che rende gloria a Dio e di ogni ginocchio che si piega, riprende Is 45,23, applicando dunque a Gesù un detto riservato a Yhwh. Capiamo in questo modo che l’umiltà di Gesù non è fine a se stessa ma ha come scopo quella di mostrare la sua Gloria, che non è diversa da quella di Dio stesso, capace di ribaltare ogni nostra categoria umana. In questa maniera, la lettera ci insegna che nel consegnare la nostra vita a Dio in Cristo non subiamo una sconfitta ma seguiamo l’esempio di colui che più di tutti ha fatto della sua vita un dono. La sua morte non fu un incidente di percorso ma la continuazione coerente di di un progetto che già nell’incarnazione vedeva una kenosi (v.7) e che giunse a compimento nella morte di croce (v.8). Non fu consegnato dagli uomini ma fu lui stesso che si consegnò e l’odio degli uomini non poté ostacolare questo suo donarsi. Il Cristo è il modello di ogni amore, perché l’amore non ha paura di umiliarsi: facendoci piccoli in realtà facciamo spazio all’altro e per chi ama allora non c’è possibilità di sconfitta (potremmo dunque legare Fil 2 ad un altro grande inno, come quello della carità di 1Cor 13).
Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Matteo (forma breve: 27, 11-54)
– Sei tu il re dei Giudei?
In quel tempo Gesù comparve davanti al governatore, e il governatore lo interrogò dicendo: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Tu lo dici». E mentre i capi dei sacerdoti e gli anziani lo accusavano, non rispose nulla.
Allora Pilato gli disse: «Non senti quante testimonianze portano contro di te?». Ma non gli rispose neanche una parola, tanto che il governatore rimase assai stupito. A ogni festa, il governatore era solito rimettere in libertà per la folla un carcerato, a loro scelta. In quel momento avevano un carcerato famoso, di nome Barabba. Perciò, alla gente che si era radunata, Pilato disse: «Chi volete che io rimetta in libertà per voi: Barabba o Gesù, chiamato Cristo?». Sapeva bene infatti che glielo avevano consegnato per invidia.
Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: «Non avere a che fare con quel giusto, perché oggi, in sogno, sono stata molto turbata per causa sua». Ma i capi dei sacerdoti e gli anziani persuasero la folla a chiedere Barabba e a far morire Gesù. Allora il governatore domandò loro: «Di questi due, chi volete che io rimetta in libertà per voi?». Quelli risposero: «Barabba!». Chiese loro Pilato: «Ma allora, che farò di Gesù, chiamato Cristo?». Tutti risposero: «Sia crocifisso!». Ed egli disse: «Ma che male ha fatto?». Essi allora gridavano più forte: «Sia crocifisso!».
Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto aumentava, prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla, dicendo: «Non sono responsabile di questo sangue. Pensateci voi!». E tutto il popolo rispose: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli». Allora rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso.
– Salve, re dei Giudei!
Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli radunarono attorno tutta la truppa. Lo spogliarono, gli fecero indossare un mantello scarlatto, intrecciarono una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero una canna nella mano destra. Poi, inginocchiandosi davanti a lui, lo deridevano: «Salve, re dei Giudei!». Sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo. Dopo averlo deriso, lo spogliarono del mantello e gli rimisero le sue vesti, poi lo condussero via per crocifiggerlo.
– Insieme a lui vennero crocifissi due ladroni
Mentre uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a portare la sua croce. Giunti al luogo detto Gòlgota, che significa «Luogo del cranio», gli diedero da bere vino mescolato con fiele. Egli lo assaggiò, ma non ne volle bere. Dopo averlo crocifisso, si divisero le sue vesti, tirandole a sorte. Poi, seduti, gli facevano la guardia. Al di sopra del suo capo posero il motivo scritto della sua condanna: «Costui è Gesù, il re dei Giudei».
Insieme a lui vennero crocifissi due ladroni, uno a destra e uno a sinistra.
– Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!
Quelli che passavano di lì lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo: «Tu, che distruggi il tempio e in tre giorni lo ricostruisci, salva te stesso, se tu sei Figlio di Dio, e scendi dalla croce!». Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi e gli anziani, facendosi beffe di lui dicevano: «Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: “Sono Figlio di Dio”!». Anche i ladroni crocifissi con lui lo insultavano allo stesso modo.
– Elì, Elì, lemà sabactàni?
A mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Costui chiama Elia». E subito uno di loro corse a prendere una spugna, la inzuppò di aceto, la fissò su una canna e gli dava da bere. Gli altri dicevano: «Lascia! Vediamo se viene Elia a salvarlo!». Ma Gesù di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito.
(Qui si genuflette e si fa una breve pausa)
Ed ecco, il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la terra tremò, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi, che erano morti, risuscitarono. Uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti. Il centurione, e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, alla vista del terremoto e di quello che succedeva, furono presi da grande timore e dicevano: «Davvero costui era Figlio di Dio!».