Vista la ricchezza e la varietà delle letture proposte dalla liturgia per la Solennità del Natale, vorremmo proporre un breve commento generale, richiamando alcune delle letture che potremmo trovare nella liturgia di Natale, così ricca grazie alla pluralità dei formulari proposti (ben 4: abbiamo infatti la messa della vigilia, quella della notte, quell’aurora, la messa del giorno di Natale).
Le prime letture di Isaia
La liturgia di Natale ci presenta alcuni brani, tutti presi dal grande profeta Isaia. La prima lettura che consideriamo in maniera particolare è Is 9, una delle grandi visioni del profeta. Dopo un capitolo disastroso come Is 8, in cui si annunciano giorni oscuri, in cui il popolo, oppresso dai nemici, maledice il re e Dio e non vede che angustia e oscurità senza scampo, ecco che si prospetta invece, in fondo al tunnel, una speranza. Per spiegare la gioia di quel momento, il profeta cerca alcune immagini. La prima è quella dell’alba: un paese di tenebre viene riempito di luce. La seconda è invece l’idea della mietitura: come nel giorno della raccolta, la gioia sospinge il lavoratore ad operare, ed egli neanche avverte più la fatica perché, almeno in questo giorno, la ricompensa è immediata. Finalmente si lavora con un ritorno che è esattamente il frutto dei raccolti. L’altra immagine, più militaresca, dice la stessa felicità: la guerra finisce e i vincitori si possono spartire il bottino.
Il profeta Isaia riprende poi anche episodi biblici per ricordare ai suoi ascoltatori i momenti in cui tale felicità era già stata provata e vissuta dal popolo d’Israele. Il ‘giorno di Madian’ è una ripresa di Gdc 7,16-23. Guidati da Gedeone che ordina loro di suonare i corni di notte, nel momento del cambio della guardia, Israele aveva ottenuto una grande vittoria senza alcuna fatica (“21Per quanto gli Israeliti restassero fermi, ciascuno al suo posto intorno all’ accampamento madianita, in questo era tutto un correre, un vociare, un fuggire. 22 Mentre quelli suonavano le trecento trombe, il Signore fece volgere la spada di ciascuno contro il compagno, per tutto l’ accampamento. L’esercito fuggì…”). Ma queste immagini di guerra non devono distrarci da quello che è invece l’obiettivo del brano e cioè raccontare una felicità grande, che di fatto solo una pace duratura può offrire. È così che il v. 4 prospetta la fine di ogni violenza (niente più calzatura e mantello del soldato nemico intriso di sangue toccheranno il suolo d’Israele).
In conclusione, ci viene fornita l’immagine più bella e più sintetica, quella che raccoglie tutte le ‘gioie’ precedentemente prospettate. Si tratta della figura del figlio che nasce. Anche il Quarto Vangelo dice che tale gioia è speciale perché fa dimenticare il dolore precedente, quello del parto, che la nuova vita a cui si è di fronte annulla: “La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’ afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo” (Gv 16,21).
La nascita di un figlio è un nuovo inizio per tutti, la vita riparte con nuove speranze e possibilità, si ha qualcuno per cui vivere e per cui spendere la propria esistenza, si assiste al miracolo della vita che si espande e vince la morte e il soffrire. Ma oltre a tutte le cose che potremmo riprendere dall’evento di una nuova nascita, il testo biblico propone per questo Bambino anche delle qualità speciali, che dicono la grandezza di un tale dono. Il titolo aulico del v. 5 è infatti particolarmente interessante: riprende tutte le qualità dei re, unisce la sapienza di Salomone, il suo essere re di pace con le caratteristiche che son più di Davide (un condottiero potente come un Dio; Padre per sempre, perché a capo di una dinastia che non morirà; ecc…). Il sogno di una monarchia che realizzi dunque un vero regno, perfetto perché in grado di unire tutte le qualità, perfino quelle più lontane (la sapienza che porta la pace con il coraggio e la giustizia del grande condottiero). Proprio come in Dio, in cui tutti gli opposti vengono riconciliati e raccolti.
Le altre prime letture, riprendono questo ‘nuovo inizio’ rifacendosi all’immagine di Gerusalemme, la città che dopo l’esilio e la distruzione deve sperare se vuole vivere la ricostruzione. Ritornare da un esilio non è certo facile e la liberazione non è tanto fisica (l’editto di Ciro permette il rientro) quanto profonda, interiore. Ecco perchè l’annuncio della ‘buona novella’ o gli inviti alla gioia sono così importanti: bisogna rinascere dentro, nel profondo, se vogliamo che questa promessa prenda carne. Il tema del corpo è ripreso nelle seconde letture proposte.
Seconde letture (Tito e lettera gli Ebrei)
Non vorremmo aggiungere troppa carne al fuoco, ma la liturgia della quarta domenica d’Avvento ci proponeva già un brano molto interessante per comprendere l’incarnazione e dunque la prospettiva della lettera agli Ebrei in generale. Ci permettiamo allora di riprendere questo breve testo che ci mostra come il tema dell’incarnazione sia un punto fondamentale in vista del sacrificio della Croce, sacrificio che rompeva tutti gli schemi precedenti con cui Dio si era manifestato.
La lettera agli Ebrei, al capitolo 10, presenta il tema dei sacrifici dichiarandoli però incapaci di portare una vera remissione dei peccati: “è impossibile che il sangue di tori e capri rimuova i peccati/ἀδύνατον γὰρ αἷμα ταύρων καὶ τράγων ἀφαιρεῖν ἁμαρτίας” (Eb 10,4). Questo compito impossibile è stato invece assolto dal Figlio che ha adempiuto la volontà di Dio stesso di realizzare, Lui, un sacrificio veramente efficace. Continua dunque la lettera agli Ebrei:
5 Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. 6 Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. 7 Allora ho detto: Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà.
8 Dopo aver detto prima non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato, cose tutte che vengono offerte secondo la legge,… 9 soggiunge: Ecco, io vengo a fare la tua volontà.
Il corpo di Gesù sostituisce i sacrifici, ma non perché il suo corpo abbia qualcosa di più o di particolare o perché la sete di sangue del Dio cristiano richieda un’offerta più degna o più santa. Con il ‘sacrificio’ di Gesù chiaramente si rompe il modello ‘sacrificale’ di un Dio tirannico che si diverte a far soffrire gli uomini e in ultimo farebbe soffrire persino il Figlio suo prediletto. Il compimento che Gesù porta è tale non perché porta all’estremo una logica già perfida ma perché la scardina completamente. Già nella teologia dell’AT il Dio d’Israele non era affatto un Dio assetato di sangue.
Geremia condanna i sacrifici umani: 31 Hanno costruito l’ altare di Tofet, nella valle di Ben – Hinnòn, per bruciare nel fuoco i figli e le figlie, cosa che io non ho mai comandato e che non mi è mai venuta in mente (Ger 7,31).
E i sacrifici sono sempre stati adempiuti come gesti per lodare il Signore, non per sfamarlo:
12 Se avessi fame, a te non lo direi: mio è il mondo e quanto contiene. 13 Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri? 14 Offri a Dio un sacrificio di lode e sciogli all’ Altissimo i tuoi voti (Sal 50,12-14).
Ciò che conta è l’adesione a Dio della libertà dell’uomo, in questo senso il ‘compiere la sua volontà’ è il vero sacrificio. E questa adempimento si deve compiere non solo intelletualisticamente, ma con tutto se stessi. E cosa dice il ‘complesso’, l’insieme di ciò che siamo se non la categoria del corpo? Il sacrificio del corpo e del proprio corpo è il sacrificio di sé, e il Signore Gesù si incarna per insegnare agli l’uomo l’arte dell’amore, l’arte del saper fare di sé, di tutto se stessi, un dono.
Già san Paolo diceva: “Vi esorto fratelli… a offrire i vostri corpi quale sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rom 12,1).
Il Natale del Signore ci insegna dunque a riscoprire non soltanto la dimensione ‘spirituale’ ma ce la mostra come agganciata a quel ‘libro del tempo’ che è il nostro corpo, dono ricevuto da Dio che dobbiamo saper trasformare a nostra volta in un dono per gli altri, non riducendolo solo a una macchina da sfamare o esaudire in ogni suo capriccio.
Per il cristianesimo la condizione umana è migliore di quella angelica, perché Gesù stesso la scelse! Così tutta la lettera agli Ebrei ricorda come questo tema del rapporto tra uomini e angeli sia paradossalmente a nostro favore. Gli uomini, definiti dal sal 8 come “coloro che sono poco meno degli angeli”, sono in verità a loro superiori, perché in Gesù sono fatti Figli, e a nessun angelo, come ricorda la seconda lettura, fu detto “Io ti sarò Padre”, frase usata invece per il Messia, per Gesù e dunque per tutti gli uomini.
A questo punto si dovrebbe sviluppare tutta una riflessione sulla condizione umana come vita nella carne ma non per asservirsi ai suoi soli bisogni ma per vivere in pienezza quella dimensione che il divino stesso ha voluto assolutamente assumere e cioè l’amore nella carne. Perché l’amore è reale solo se, come nella carne, è esposto anche al rifiuto, allo scacco e alla fatica. L’amore degli angeli, sicuramente puro e sincero, è subordinato all’amore nella carne, perché quest’ultimo deve decidersi per Dio (contro una naturale tendenza al rifiuto, già notata nel Prologo) e perché, come ogni amore umano, rischia in prima persona, per l’incomprensione degli altri e soprattutto per gli inevitabili alti e bassi della propria infedeltà.
La lettera a Tito ci vuole proprio mostrare un amore concreto: Tito, un discepolo di S.Paolo, ha saputo, pur essendo di origine greca (Gal 2,3), assorbire la tradizione giudaica e assumerla, proprio grazia all’incarnazione di Gesù che ha trasformato le antiche promesse di Israele in un dono per tutta l’umanità (si pensi alla genealogia di Lc, che al contrario di quella di Mt, risale fino ad Adamo). La grazia di Dio ‘apparsa’ in Gesù infatti ci permette di cogliere l’amore di Dio per tutto il mondo. Questa nuova possibilità è χάρις, dice san Paolo perché insegna agli uomini (παιδεύουσα ἡμᾶς) come vivere la vita in profondità, perché l’uomo acquisisce quella condotta rappacificata (σωφρόνως καὶ δικαίως καὶ εὐσεβῶς; secondo sapienza, secondo giustizia, con devozione) che gli permette di godere di questa sua esistenza terrena senza farsi schiacciare da desideri sbagliati e dall’empietà (che più che una categoria morale si configura come l’opposto della devozione1, intendendo dunque un’esistenza in cui Dio non ha spazio, non rientra nell’orizzonte umano).
Questa nuova regalità, donata all’uomo da Dio stesso, perché ‘regni’ sul giardino dell’Eden, torna dunque a compiere quel progetto originario che fin da Genesi era la prospettiva per la quale Dio aveva creato il mondo. Questo progetto era stato rotto dall’uomo fin da principio con il peccato e così anche dalle varie monarchie, nessuna all’altezza del grande compito fissato da Dio.
Lc 2 e il Prologo di Gv
L’evangelista Luca di fatto si prende gioco dei poteri solo umani, e lo fa riprendendo Cesare Augusto e la sua pretesa di fare un censimento per vedere di quanti uomini disponesse e dunque di che forza militare poteva vantarsi. Non è questa la vera regalità che consegna agli uomini il modo giusto di vivere del e nel mondo. Il re-bambino ci insegna qualcosa di diverso, lui è quella luce che libera gli uomini dal loro delirio autodistruttivo, dalle logiche del potere. Ma questa sapienza è nascosta ai grandi mentre si manifesta ai piccoli, come i pastori, gente esclusa in gran parte dalla vita sociale, visti come dei possibili predatori e ladri. Proprio loro però sono ripresi in quanto persone che vegliano, che nella notte cercano una luce. A chi cerca il Signore, Dio non farà mancare la sua rivelazione nella carne, nella sua storia reale.
E il Natale è Dio che fornisce agli uomini una rivelazione nuova, nuova perché incarnata, perché punto d’inizio per ripartire a comprendere Dio e il senso della storia (in questo senso, rinascita, nuovo bambino che sgorga dal nulla, germe che sorge). In questo senso, il Prologo del Vangelo di Giovanni è un testo perfetto per il Natale, per dirne la densità. Ma proprio per questo il testo si presenta anche come impegnativo! Vediamo di partire dal versetto che riteniamo la centrale per la comprensione del brano. “E il verbo si fece carne”; poche frasi nella storia del pensiero mondiale son state così concise e così dense! Il Vangelo ritenuto per anni gnostico, filosofico, quello con l’immagine più divina di Gesù, in verità ha nel suo repertorio, tra le espressioni più note ed importanti, in un punto saliente come il centro del suo Prologo, un totale elogio dell’incarnazione.
Nella complicata ricerca di una struttura dei primi versetti del Quarto Vangelo, scopriamo infatti che il Prologo si può dividere in due parte, una prima del versetto 14 e l’altra composta dai versetti successivi. La tradizione aveva già notato la centralità del v.14 con il tema dell’incarnazione, proprio perché, nonostante il versetto non si trovi al centro del testo, non si può non riconoscere in quella frase un nuovo punto di partenza del discorso.
Non si tratta però, come proponevano i padri, di operare una secca distinzione tra ‘Logos asarkos’ (Logos non-incarnato) e ‘Logos ensarkos’ (Logos incarnato), come se esistessero due fasi totalmente scisse. Di fatto anche nella prima parte si parla di Gesù Cristo e non solo del Logos asarkos. Centrale è il passaggio tra il 3 e il 4 versetto: normalmente si traduce:
“senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita…”
Ma è una traduzione probabilmente scorretta, perché è inutile la ripetizione di “niente è stato fatto di ciò che è stato fatto”; ormai da anni il Nestle-Aland, l’edizione critica del Vangelo, anticipa il punto tra il versetto 3 e il versetto 4. Si ottiene così un primo versetto dove si parla dell’importanza del Logos nella creazione: “tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto / 3πάντα δι᾽ αὐτοῦ ἐγένετο, καὶ χωρὶς αὐτοῦ ἐγένετο οὐδὲ ἕν”.
Il versetto 4 allora si configura non come la ripetizione dell’azione creazionale (che per definizione è unica), ma come il dono della vita che Gesù Cristo realizza.
Gv 14: ὃ γέγονεν ἐν αὐτῷ ζωὴ ἦν, καὶ ἡ ζωὴ ἦν τὸ φῶς τῶν ἀνθρώπων/ciò che fu fatto in lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini.
La semplice attività di creazione non bastava, non è mai bastata, non c’è stata solo una azione da ‘orologiaio’ (perfetto ma distaccato) da parte di Dio, che poi invece sarebbe intervenuto in un momento più consono inviando il Figlio. In verità il Figlio Gesù da sempre lavora per portare la Vita nel mondo creato. In fondo è questo quanto compiva Dio camminando nel giardino dell’Eden, cercando gli uomini (la prima domanda della Bibbia era, non a caso, “Adamo/Terrestre, Dove sei?”). Questo Dio è da sempre in ricerca dell’uomo e da sempre desideroso di incontrarlo, da sempre dà Vita a ciò che ha creato e già nell’AT questa funzione veniva ricordata assegnandola alla Sapienza.
Così ne parla Sir 24:
«Io sono uscita dalla bocca dell’ Altissimo, e come vapore ho ricoperto la terra. 4Ho abitato nelle altezze del cielo, avevo il trono in una colonna di nubi. 5Io sola ho fatto il giro del cielo e ho passeggiato nel profondo degli abissi. 6Sui flutti del mare e su tutta la terra, in ogni popolo e nazione avevo dominio. 7Ciò nonostante ho cercato un luogo di quiete, qualcuno, nel cui podere sostare. 8Allora il Creatore di tutto mi diede un comando, il mio Creatore mi ha dato una sede (una tenda) per riposare (κατέπαυσεν τὴν σκηνήν μου) e mi ha detto: Metti tenda (κατασκήνωσον) in Giacobbe, sia in Israele la tua eredità.
Questa Sapienza universale dunque, già nella concezione ebraica, aveva cercato un contatto più diretto con un popolo eletto, particolare e cioè il popolo d’Israele.
Il v.14 del Prologo riprenderebbe questa tradizione, come mostra bene l’uso del termine ‘porre la tenda’. Aggiungerebbe però una grande novità: questa Sapienza non è solo uno spirito da sempre attivo nell’uomo e non è neppure soltanto la Legge scesa dal cielo come ritenevano i pii giudei, ma l’incarnazione trasforma Dio che si fa uomo, esposto al soffrire e al gioire, all’amore e all’odio. Già prima il Prologo aveva ribadito il rifiuto opposto dagli uomini: “le tenebre non l’hanno accolto… il mondo non lo riconobbe… i suoi non l’hanno accolto”. Ora che si è fatto semplice uomo, cosa succederà a questo Dio così umano che sarà toccato fin nella carne dall’odio delle sue stesse creature? La sua decisione di incarnarsi lo esporrà fino alla morte di croce, ma proprio lì, nel progetto di Dio Padre, si manifesterà in pienezza il suo amore, e per questo la morte del Figlio sarà la dimostrazione della Gloria di Dio, che ha amato gli uomini fino a quel punto.
In questo senso il Figlio porterà a compimento quell’azione da sempre svolta dal Logos, cioè dare VITA, quella vera, quella eterna, quella che redime la vita ‘naturale’, creata, ma inesistente se non redenta da Gesù Cristo.
Per questo tutto il Vangelo di Gv non farà che presentare la morte di Gesù come la Gloria di Dio, unica fonte di salvezza:
Gv 3: 16 Dio infatti ha tanto amato il mondo, che ha dato il Figlio suo Unigenito affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna. 17 Dio infatti non mandò il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Gv 8: 28 Disse dunque Gesù: «Quando innalzerete il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che io sono e che non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, queste cose dico.
Gv 12: 31 Ora c’ è il giudizio di questo mondo, ora il principe di questo mondo sarà cacciato fuori. 32 E quando io sarò innalzato da terra, attrarrò tutti a me». 33 Questo lo diceva per indicare di quale morte stava per morire.
La festa del Natale è dunque l’inizio della redenzione della nostra carne. È l’invito a riscoprire come il fluire stesso della vita sia il segno di una salvezza che non deve attendere per forza un paradiso per cominciare a realizzarsi. Il Vangelo ritenuto erroneamente più ‘filosofico’ e più ‘gnostico’ in verità insegna a cercare ORA la Vita Eterna (si pensi a tutte le espressioni usate da Gesù per dire che lui è [e non sarà] fonte di Vita).
1ἀσέβεια si contrappone volutamente a εὐσεβῶς, devozione.